Lettera aperta ad alcuni anarchici italiani

Lettera aperta ad alcuni anarchici italiani

Abbiamo appena finito di leggere la lettera che ci avete indirizzato, a noi come a tutti i compagni francesi. L’abbiamo letta con piacere, ritrovandovi molte considerazioni in cui ci riconosciamo. L’abbiamo letta con attenzione, giacché essa proviene da chi, purtroppo, ha dovuto fare i conti con la repressione assai prima e più di noi. Ma, a dirla tutta, ci ha lasciato l’amaro in bocca e provocato un certo fastidio.

Ci viene infatti da chiedervi: a chi state parlando? Di cosa state parlando? Siccome la vostra lettera è rivolta ai compagni francesi e formula precise critiche alla deriva “innocentista” che ha preso la mobilitazione in favore degli arrestati di Tarnac, non vorremmo che in Italia si pensasse che “i compagni francesi” sono tutti dediti a raccogliere firme, in compagnia di bolsi intellettuali di sinistra, da consegnare alle autorità competenti come attestato di buona condotta.

Se è vero che alcuni compagni hanno deciso di trasformare quella che, a nostro e vostro avviso, dovrebbe essere una lotta contro la repressione in una lotta in difesa di alcuni repressi, è altresì vero che si tratta di una loro scelta che non è affatto condivisa dall’intero movimento francese.

Sfortunatamente la repressione in Francia non è iniziata lo scorso 11 novembre, avendo già colpito in precedenza altri compagni. Fortunatamente i sabotaggi sono proseguiti anche dopo quella data, inarrestabili. Tarnac non è il centro della Francia, né per lo Stato né tanto meno per l’insurrezione. È solo un episodio, che rischia di assumere connotati sempre più patetici. Come giustamente fate osservare, sono le “cattive intenzioni” il vero obiettivo della repressione, la quale, non riuscendo a prevenire gli attacchi, cerca di fermare il diffondersi di discorsi che rivendicano pubblicamente la necessità e la possibilità di una insurrezione (discorsi che alimentano e sono alimentati dall’azione, in un continuo gioco di vasi comunicanti).

Ciò che è grave, con gli arresti di Tarnac, non è tanto il comportamento dello Stato che, per le ragioni da voi chiaramente espresse, colpisce le nostre fila. In fondo, giudici e poliziotti non fanno che il loro sporco mestiere. Ciò che è grave è che, a fronte di ciò, si rinneghino pubblicamente quelle “cattive intenzioni” e quei discorsi, che li si banalizzi facendoli passare per la semplice “passione storica” di un “droghiere”. Oppure che si accetti fino in fondo di ricoprire il ruolo di “bravi ragazzi” (dall’illustre blasone e con adeguate referenze, nonché disponibili al dialogo con giornalisti e politici, quindi fuori posto in una cella) da non confondere con le “cattive canaglie” (senza santi in paradiso, muti di fronte ai loro nemici, quindi meritevoli di marcire in galera). Questo, siatene certi, è per noi molto più doloroso della momentanea separazione fisica da alcuni compagni.

Essendo molti gli anarchici italiani noti per la loro intransigenza, ci ha stupito e anche un po’ colpito la premura e la cautela con cui ci rivolgete le vostre osservazioni (le Alpi sono davvero così alte, se vi limitate a biasimare in Francia ciò che disprezzereste in Italia?). Arrivate perfino a metterci benevolmente in guardia contro gli “errori”. Quali errori? Siamo desolati, ma temiamo che stiate fraintendendo: non è stato commesso nessun errore nella mobilitazione in favore degli arrestati di Tarnac. Si è trattata di una precisa scelta di campo.

Da questo punto di vista, il vostro invito a “saper leggere” la repressione accompagnato dalla citazione di Victor Serge è un autentico lapsus. È proprio perché hanno letto bene Victor Serge (quello che, imputato nel processo contro gli illegalisti noti come Banda Bonnot, si difendeva definendosi un intellettuale che nulla aveva a che spartire con volgari criminali) che alcuni compagni francesi hanno imboccato la strada della difesa ad personam. Non fanno che mettere in pratica la diffusa idea secondo cui bisogna organizzarsi a partire dalla situazione, che in ogni situazione si possono fare alleanze, che nella guerra contro lo Stato non bisogna avere scrupoli morali o impacci etici, ma solo strategie da applicare. Buono è ciò che fa uscire i compagni dalla galera, cattivo è ciò che li fa rimanere. Punto e basta.

Là dove l’etica coinvolge la totalità dell’esistenza umana, la politica agisce su alcuni suoi singoli frammenti. Per questo l’opportunismo ne è una costante, perché interviene a seconda delle circostanze. Quando queste sono favorevoli, si può ben essere coerenti. Ma quando sono sfavorevoli… Ecco perché esso si manifesta soprattutto nelle situazioni di crisi o di urgenza.

Il compagno che si incontra con un funzionario di Stato (ad esempio un ex ministro) spinto dall’emergenza di un procedimento giudiziario (bisogna uscire dal carcere) non è tanto diverso dal compagno che si incontra con un funzionario di Stato (ad esempio un sindaco) spinto dall’urgenza di una lotta sociale (bisogna fermare una nocività), ed entrambi sono eredi del compagno che diventa funzionario di Stato (ad esempio ministro della giustizia) spinto dall’emergenza della guerra (bisogna fare la rivoluzione). In tutti e tre i casi si fa il contrario di quel che si dice, avvalendosi di buone ragioni (e quanto pratiche! quanto concrete!) e delle migliori intenzioni. L’emergenza spezza il normale svolgimento degli avvenimenti, travolge ogni punto di riferimento, sospende l’etica e spalanca la via ai contorsionismi della politica.

Tutto ciò è ovvio, è quasi banale, ma solo per chi pensa che idee e valori non siano parte integrante dell’essere umano, ma gli siano esterni, come puri strumenti da usare a seconda dell’occasione. Se invece si ritiene che le circostanze cui pone di fronte la realtà possono anche essere diverse e contraddittorie, ma unici sono i propri pensieri, i propri sogni, i propri desideri, allora è difficile negare che è giustamente nei momenti di crisi o di urgenza che bisogna cercare di rimanere se stessi. Una partita sempre aperta, piena d’imprevisti ed ostacoli, in cui è purtroppo facile inciampare e cadere. E allora, che si fa? Ci si rialza, cercando di imparare dai passi falsi, o si inizia a strisciare vantandosi della propria abilità tattica?

Dopo tutto, l’insurrezione è in sé una situazione eccezionale. Non ha senso atteggiarsi a cavalieri dell’Idea fuori dai momenti di rottura, per poi scoprirsi all’improvviso piazzisti della Convenienza non appena questi si verificano. Sarebbe come proclamarsi ai ferri corti con l’esistente per poi sfoderare un uncinetto con cui ricamare rapporti con i suoi sostenitori e i suoi falsi critici. Insomma, o si pensa che fini e mezzi siano un tutt’uno (interpretazione etica della lotta), oppure si pensa che fini e mezzi siano separati tra loro (interpretazione politica della lotta). Le vie di mezzo, come quelle che propongono dei mezzi senza fini, lasciamole alle fumisterie filosofiche.

Ciascuno è ovviamente libero di scegliere la maniera che più preferisce per cavarsi dai guai (senza pretendere per questo un rispetto dovuto, né un’amicizia immutata). Ciò detto, pensiamo sia quanto mai necessario arginare questo opportunismo politico dichiarato — presente in Francia, ma siamo certi anche in Italia e nel resto del mondo. Esso sarà magari in grado di spalancare più velocemente le porte delle prigioni o di calamitare l’attenzione di tante brave persone, ma ci restituirà solo l’ombra dei compagni che abbiamo potuto apprezzare. Contro questo opportunismo, è meglio la furia iconoclasta di un Renzo Novatore degli astuti consigli dell’anarchico individualista ravveduto Victor Serge.

Creature della palude
Marzo 2009