Lettera aperta ai compagni francesi

A proposito degli arresti di Tarnac e dintorni

Sappiamo quanto sia doloroso essere separati dai propri compagni, e non abbiamo ricette né lezioni da impartire sul modo per farli uscire al più presto dal carcere (farli uscire tutti, a prescindere da qualsiasi distinzione tra “innocenti” e “colpevoli”). Le brevi note che seguono raccolgono alcune riflessioni nate a partire da varie esperienze repressive vissute in Italia, nella speranza che possano essere utili ai compagni francesi.

Gli arresti di Tarnac rappresentano un fatto grave non solo in quanto attacco rivolto a tutti coloro che già si battono, nella critica e nella pratica, contro lo Stato e il capitale, ma anche nel loro intento intimidatorio nei confronti di tutti i potenziali complici di una guerra sociale più diffusa.
La repressione, infatti, mira a colpire, più che i singoli atti, le "cattive intenzioni", svolgendo così un fondamentale ruolo pedagogico vòlto a depotenziare l'attitudine alla rivolta di tutti e di ciascuno. L'invenzione di "cellule terroristiche" o di "mouvances” di una qualche identità serve a isolare ogni ipotesi insurrezionale da tutte le pratiche di conflittualità esistenti, separando contemporaneamente ogni rivoltoso da se stesso e dalla proprie potenzialità.
La pedagogia della repressione è sempre una pedagogia della paura.

Il tentativo di trasformare scontri di piazza, azioni anonime di sabotaggio, scritti teorici, rapporti di solidarietà in un’“associazione terroristica” con tanto di cellule, capi e gregari è, purtroppo, un film già visto numerose volte in Italia. Il problema dello Stato è evidente: per cercare di liquidare determinate pratiche sovversive e i “movimenti” che le sostengono apertamente, non bastano accuse di reati specifici. Si tratta allora di inventare “reati associativi” per potere distribuire anni e anni di carcere senza quell’arcaica formalità che si chiamava prova. Molti di noi hanno in tal modo subìto processi, anni di detenzione preventiva e talvolta anche qualche pesante condanna. Pur non riuscendo spesso a sostenere fino in fondo le proprie inchieste, lo Stato si pone allo stesso tempo alcuni obiettivi paralleli: spezzare rapporti, interrompere il filo dell’attività sovversiva, testare la capacità di risposta dei compagni, ecc.

In Francia, azioni di sabotaggio e scontri con la polizia non datano certo dall’altro ieri. Ciò che ha spaventato lo Stato negli ultimi anni, a nostro avviso, è stato l’emergere di una possibile complicità – nelle parole e nei fatti – tra differenti forme di rivolta sociale, nonché l'affinarsi e il diffondersi di discorsi che rivendicano pubblicamente le pratiche di un’insurrezione possibile. Beninteso: lo Stato non teme tanto il discorso rivoluzionario, finché si limita a gioire della propria astratta libertà di parola, né in fin dei conti il singolo attacco: ciò che teme è l'imprevedibilità dell'attacco diffuso e il rafforzamento reciproco delle parole e dei gesti. Ciò che è stato per tanto tempo una posizione di ben pochi individui, comincia ad assomigliare ad una “palude” (per riprendere l’efficace espressioni usata, una dozzina di anni fa, dal nucleo “antiterrorismo” dei carabinieri italiani), difficilmente identificabile e governabile. Lo Stato vuole prosciugare quella palude perché ne escano capi, “organizzazioni”, pretesi “movimenti” con tanto di sigla, portavoce, ecc.

Se è sempre valido il consiglio che Victor Serge dava ai rivoluzionari in ostaggio del nemico – “negate tutto, anche l’evidenza” –, è necessario saper leggere la repressione al fine di rilanciare e rafforzare la nostra prospettiva. Sappiamo tutti che il nemico storico di ogni lotta insurrezionale è sempre stata la sinistra (e la sua sinistra): partiti e sindacati, recuperatori, mediatori, intellettuali consiglieri dei moderni Principi, alleati scaltri della repressione, abili nel dividere in “buoni” e “cattivi”. In particolari circostanze, costoro possono persino arrivare a difendere di fronte ad una “Giustizia ingiusta” quegli stessi compagni che li hanno sempre attaccati. Permettere che queste carogne riacquistino una qualche forza a partire dai nostri arresti è un errore non privo di conseguenze.
Che ad opporsi alle porcherie dell’“antiterrorismo” non siano solo i compagni, ma un ambito più allargato, ha degli aspetti positivi (ed è indice della constatazione spaventata che il terrore di Stato ci schiaccia ogni giorno di più). Ma la nostra prospettiva avanza solo nella chiarezza con gli altri sfruttati e ribelli, vale a dire nella ferma inimicizia verso la sinistra e i suoi mass media. Per dirla diversamente, anche il modo di reagire alla repressione fa parte di quella guerra sociale che non ammette tregue. Non assumendo e difendendo determinate posizioni, si cede terreno al nemico. La solidarietà democratica e lo spazio sui quotidiani non si danno mai gratis: oggi, servono alla sinistra non solo per riabilitarsi agli occhi di tutti coloro che sono ai ferri corti con l'esistente (“Vedete? in fin dei conti siamo d'accordo...”), ma anche per neutralizzare ogni posizione di rottura radicale col presente (si possono anche perdonare certi eccessi giovanili...).

La risposta che molti compagni hanno dato in Italia, di fronte ad inchieste simili (o ancora più pesanti), è stata molto semplice: “Noi non sappiamo chi ha fatto le cose di cui ci accusate, signori; ciò che sappiamo è che le difendiamo apertamente, e che le vostre inchieste non spegneranno i fuochi di quella rivolta sociale che non ha aspettato i nostri testi per divampare”. Una simile risposta – unita alle pratiche che ne conseguono – ci ha permesso di uscire dal carcere riprendendo il filo della nostra attività. Una simile risposta non troverà certo alleati tra i mass media e gli intellettuali democratici – soprattutto, non gli permetterà di parlare a nome nostro.
Alcune parole chiare trovano sempre delle orecchie pronte ad ascoltarle. Prigioniere, le parole forzano talvolta le catene, emergendo dalle parti più misteriose e comuni dell’esperienza e del cuore.
La forza che deriva dall'inserirsi nel loro gioco e nel loro discorso, con la pretesa di sfruttarlo o di détournarlo ai propri fini, è illusoria. Con il nostro nemico non abbiamo in comune nemmeno il senso delle parole – né di felicità, né di tempo, né di possibilità, né di fallimento o di riuscita.

Ci sono posizioni di rottura che si sono rivelate utili anche sul piano giudiziario, così come ci sono compagni che hanno rimediato un anno di carcere per qualche scritta sul muro: non esiste in questo ambito alcuna scienza esatta. La tensione verso la coerenza tra mezzi e fini pone il problema dell’efficacia in altri termini, cioè rispetto alla vita per cui ci battiamo. “Se sono innocenti – diceva Renzo Novatore – hanno la nostra solidarietà, se sono colpevoli ce l’hanno ancora di più”. I compagni solidali hanno trovato spesso in queste parole il terreno più favorevole per agire, per continuare là dove alcuni sono stati provvisoriamente fermati, e per scoprire nuovi complici…

Una certezza ce l’abbiamo: l’insurrezione che viene non legge Libé.

alcuni anarchici italiani
febbraio 2009