Se in Calabria i dannati della terra cadono vittima della tanto deprecata “criminalità organizzata”, nel vicino Salento il loro inferno era il famigerato CPT di San Foca, il Regina Pacis. Sorvegliato da fedeli uniformi e gestito da tonache benedette, al suo interno venivano perpetrate violenze tali da non poter essere più celate né dalle mura né dalle cancellate. C’era chi aveva visto, udito e raccontato. Fu uno scandalo enorme, e dentro i palazzi del potere si diffuse un certo imbarazzo. Il vescovo di Lecce fu costretto a prendere le difese del responsabile del centro — il suo chierichetto Don Cesare Lodeserto — mentre alla magistratura toccò avviare delle timide indagini. Intanto, nelle piazze, montava la rabbia. Mentre tutti i sinceri democratici manifestavano a favore del diritto e delle sue norme, gli anarchici sostennero la rivolta contro il lager e i suoi aguzzini.
Abbiamo appena visto come lo Stato — quello Stato che fomenta la guerra fra poveri, varando leggi xenofobe e incitando all’odio razziale — sia intervenuto a Rosarno per ripristinare l’ordine: prima ha deportato in massa i ribelli, poi ha arrestato alcuni capibastone. A Lecce si è comportato nello stesso modo, ma in senso inverso: prima ha arrestato il sacerdote autore dei soprusi (nel marzo 2005), poi ha inquisito diversi anarchici gettandone in galera cinque (nel maggio 2005). Rimessi in libertà dopo oltre un anno di detenzione, questi ultimi sono stati successivamente condannati in primo grado per “associazione a delinquere” e altri reati specifici, mentre altri sono stati condannati a pene minori. Oggi che il lager Regina Pacis è stato chiuso e il sacerdote torturatore è riparato all’estero in missione per conto di Dio, la magistratura salentina vorrebbe regolare i conti in sospeso con questi nemici di ogni frontiera. Non solo per confermare, ma per appesantire ulteriormente le condanne già inflitte in primo grado.
Se per gran parte delle stesse istituzioni perfino la rivolta dei neri di Rosarno rappresenta uno sfogo comprensibile, quella degli anarchici di Lecce costituisce una minaccia inammissibile. Lo schiavo che si ribella all’ennesima frustata ricevuta, purché con la sua collera non esageri troppo e purché rientri in fretta nei ranghi, lo si può parzialmente giustificare (salvo poi usarlo come pretesto per una deportazione di massa). Gli individui che rifiutano il ruolo di cittadini passivi e indifferenti, che rifiutano qualsiasi disciplina di partito, vanno repressi senza esitazione. Perché danno il cattivo esempio. Lo Stato biasima l’omertà nei confronti degli atti di violenza privata, ma la pretende come un dovere civico davanti agli atti di violenza istituzionale.
Gli anarchici di Lecce hanno fatto quello che gli abitanti migliori di Rosarno non hanno avuto il coraggio di fare. Non hanno chiuso gli occhi di fronte a quanto stava accadendo, non hanno invocato e aspettato qualcuno, sono scesi in campo per cercare di fermare direttamente l’infamia in corso. E lo hanno fatto senza mire politiche
o ipocrisie missionarie. Hanno visto una umanità in catene e sono insorti contro gli schiavisti.
Per questo li vogliono condannare, a Lecce, il prossimo 10 febbraio.
Per questo non possiamo lasciarli soli.
altri nemici di ogni frontiera