Tobia Imperato: LE SCARPE DEI SUICIDI

[Pieghevole dal titolo Come fare le scarpe ai suicidi, maggio 2004]

Tobia Imperato
Le Scarpe dei Suicidi. Sole, Silvano, Baleno e gli altri
Autoproduzioni Fenix, Torino 2003, pp. 180

Sono trascorsi più di cinque anni da quando tre anarchici — Silvano Pelissero, Edoardo Massari (Baleno per gli amici) e Soledad Rosas — furono arrestati a Torino con l’accusa di essere i responsabili di una serie di sabotaggi contro l’Alta Velocità avvenuti in Val di Susa nei mesi precedenti. Ciò che ne seguì, fra cui il suicidio di due degli arrestati, destò all’epoca un grande scalpore. Oggi, con la fine della lunga trafila giudiziaria a carico dell’unico imputato sopravvissuto, che si è visto scagionare dalle imputazioni più pesanti, si può dire che quella vicenda sia conclusa, finita, terminata. Appartiene al passato, insomma. E come tutte le cose del passato in cui scorre il sangue della passione e della tragedia, ha la capacità di attirare l’attenzione di molti avvoltoi dall’anemico presente. In Argentina un giornalista-scrittore, tale Martín Caparrós, per rimpinguare il proprio conto in banca ne ha ricavato un romanzo che, indugiando sugli aspetti più intimi della vita di Soledad Rosas, sta riscuotendo un certo successo. In Italia invece l’interesse commerciale non ha — almeno per il momento — infangato quei fatti, che però non sono sfuggiti nel frattempo ad un altro genere di interesse, che ha trovato modo di manifestarsi nella pubblicazione di un libro intitolato Le scarpe dei suicidi. Si tratta di un libro di oltre trecento pagine, che ricostruisce passo per passo quanto accaduto poggiando su una corposa documentazione. Un libro insomma che fa onore al suo autore, uno “storico dell’anarchismo”, Tobia Imperato.

Però... eh sì, però è risaputo che non esiste alcuna storia imparziale, oggettiva, immune dall’interpretazione di chi la racconta. Come ammoniva un famoso storico inglese, «quando cominciamo a leggere un libro di storia, dobbiamo occuparci anzitutto dello storico che l’ha scritto, e solo in un secondo tempo dei fatti che esso prende in esame [...] dobbiamo sempre stare con le orecchie tese per sentire che cosa frulla nella testa dello storico». Ora, Tobia Imperato comincia la sua introduzione con queste parole: «Quella che segue è una storia di parte, scritta dal di dentro, da uno che ha seguito giorno per giorno il susseguirsi degli eventi senza timore di lasciarsi coinvolgere». Ma poi, appena dichiarata la sua partigianeria, ecco che già si contraddice: «Non ho la pretesa – come i giornalisti servi – di essere obiettivo, ma solo quella di dire la verità, la nostra verità, su tutto quello che è successo a Torino dal marzo ‘98 in avanti». Non ha dunque la pretesa di essere obiettivo, nossignori, solo quella più modesta di dire la verità. La «nostra verità», per la precisione: se escludiamo il plurale majestatis, nostra di chi? Non ci sembra una domanda peregrina, dato che fra gli stessi compagni non si può dire che esista una visione univoca su quei fatti. E quindi? Non occorre tendere un granché le orecchie per sentire quale sia la «verità» che ha trovato in Tobia Imperato la propria penna e grancassa: quella degli squatter torinesi, di cui si pregia d’essere amico fedele e devoto, al punto da ringraziare il loro tuttologo nelle note finali della sua opera «per i preziosi consigli, suggerimenti e chiarimenti, per il lavoro di revisione del testo, la scelta del titolo e la realizzazione grafica» e tutti quanti per «le loro iniziative benefit» che «hanno permesso la pubblicazione di questo libro». Soltanto?

Un’amicizia, la loro, su cui qualcuno a suo tempo aveva ironizzato, definendo Imperato incensatore degli squatter. Forse se l’era legata al dito quella frecciatina, tant’è che fin dalla prima pagina del suo libro la risputa fuori: «I sentimenti che mi animano (e che mi hanno spronato a portare a termine questa piccola fatica) sono gli stessi che avevo espresso, senza incensare nessuno – come anarchico e come uomo libero da ogni forma di settarismo – subito dopo la morte di Baleno nello scritto che fu pubblicato da Tuttosquat col titolo “Lunga vita agli squatter”». Dunque, Tobia Imperato non incensa nessuno. Dice solo la verità.

E, con piglio scientifico, costellando la sua opera di innumerevoli note la cui lettura è indispensabile (perché spesso è lì che riesce a concentrare il suo fiele), Imperato ci propina una agiografia degli squatter torinesi, presentati come vittime delle persecuzioni della magistratura in quanto irresistibili animatori del movimento delle occupazioni... e chi li denigra lo fa solo perché roso dall’astio per «l’egemonia culturale della filosofia squatter» (le parole sono di Luther Blisset ma il loro contenuto è condiviso da chi le riporta con grande sprezzo del ridicolo). Tutto ciò Imperato lo scrive quasi scusandosi, ricordandoci che si tratta del suo neutrale resoconto di storico, per meglio intascare le lodi per la sua lucida modestia.

Per riuscire a dare a bere una simile «verità», il nostro storico del movimento anarchico torinese deve fare i salti mortali, destreggiandosi fra contraddizioni, omissioni, falsificazioni, manipolazioni e menzogne. E non stiamo esagerando. Già non si capisce bene chi siano questi squatter di cui esalta le prodezze. In una piccola nota egli spiega che si tratta solo di una parte del movimento delle occupazioni di Torino, ma a leggere il libro sembrerebbe che questa parte sia il tutto. Questo confusionismo interessato lo porta addirittura a definire più volte «squatter» gli stessi arrestati, fatto palesemente falso. Pelissero non lo era di certo, cosa che pure lo “storico” ammette, non foss’altro per accusare i compagni della sua «area» (?) di averlo abbandonato, mentendo spudoratamente sul contesto in cui avvenne tale rottura. Lo storico attribuisce infatti tale rottura alla creduloneria di questi compagni nei confronti delle menzogne dei giornalisti, “omettendo” però di ricordare la lettera di ringraziamento e stima che Pelissero inviò ad uno dei destinatari dei pacchi esplosivi, il consigliere dei Verdi Cavaliere. In questa lettera, pubblicata su La Repubblica del 5 agosto 1998, Pelissero manifestava la propria stima anche per altri noti politici, come Manconi e Pisapia. E chiedeva esplicitamente al suo corrispondente di non farne parola, ben sapendo la reazione che diversi compagni avrebbero potuto avere. Quanto a Baleno, è quasi imbarazzante dover ricordare a questo autore amante della verità che quando era in vita gli squatter non solo lo disprezzavano (“Balengo” era il soprannome più gentile che gli avevano affibbiato…), ma gli avevano anche impedito più volte l’ingresso nei loro spazi. Poi è morto e da veri sciacalli lo hanno nuovamente accolto, concedendogli l’onore del titolo “squatter” (un po’ come fece la Federazione Anarchica Italiana, che sulle pagine del suo settimanale lo ha definito, ma solo post mortem, «compagno anarchico»).

Per dare un’idea del livello di manipolazione cui arriva l’agiografo degli squatter, basti pensare a come ricostruisce la contestazione a Dario Fo. Contestazione che egli, naturalmente, attribuisce agli squatter. In realtà i suoi beniamini avevano preso accordi con l’attore nobeldotato per poter esporre uno striscione alla fine della sua recita e per questo motivo non avevano la minima intenzione di contestarlo. Per fortuna i loro progetti erano stati mandati a monte dall’intervento irriverente di alcune compagne, le quali non erano affatto disposte ad ascoltare in silenzio la beatificazione del commissario Calabresi. Queste compagne avevano diffuso successivamente un testo su quanto avvenuto, di cui Imperato riporta in una nota poche selezionate righe che lasciano intendere una generica rabbia nei confronti dei democratici fautori del dialogo, laddove in realtà le loro critiche erano indirizzate proprio contro gli squatter.

Ecco il metodo truffaldino che viene utilizzato a piene mani da Imperato lungo tutto il suo libro: dovizie di particolari sulle performance degli squatter (con tanto di citazioni lusinghiere nei loro confronti), laddove è possibile attribuire loro quanto fatto da altri, poche righe se non il silenzio su tutto il resto (al limite, premurose citazioni denigratorie). Così, per fare qualche esempio, saluta a voce alta le frattaglie in faccia ai giornalisti, ma ricorda a voce bassa chi in quei giorni rilasciò interviste; menziona la sassaiola dei manifestanti del 4 aprile contro il Palazzo di Giustiza, ma non i noti pompieri squatter che cercarono di impedirla; cita stralci di documenti opportunamente selezionati o li omette del tutto se troppo scomodi. Arriva addirittura ad ipotizzare un furto di documenti mai avvenuto in casa di compagni, facendo nome e cognome dell’inesistente “ladro”.

Ma il capolavoro lo compie quando deve affrontare il pomo della discordia, ciò che ha segnato la rottura di molti rapporti all’interno del movimento a Torino: la reazione ai cosiddetti pacchi-bomba. Lasciamo perdere che non si capacita del fatto che si possano inviare simili regali non solo a nemici dichiarati ma anche a gentili intermediari con le istituzioni. Ma ciò che stupisce è che se Imperato non ha peli sulla lingua nel definire dissociazione il comunicato diffuso dagli autonomi, quando invece si sofferma sul comunicato firmato dagli squatter (Fuori dallo spettacolo) ecco che la sua lingua si fa irsuta. Sentite cosa dice: «Per rispondere a quest’ennesima canea mediatica i posti anarchici (ad esclusione di El Paso) e il centro sociale comunista Gabrio firmeranno un comunicato in cui si sosterrà la propria indifferenza nei confronti di una storia che passa sopra la testa di tutti». Tutto qui: nessuna dissociazione, solo una comprensibile indifferenza nei confronti del baccano mediatico. Peccato davvero che quel comunicato si concluda con queste significative parole: «A chi ci vorrebbe terroristi e clandestini rispondiamo che reagiremo apertamente ad ogni forma di violenza con l’azione diretta, pubblica e collettiva, come abbiamo sempre fatto». E poiché l’invio di pacchi-bomba non è di certo una forma di azione diretta «pubblica e collettiva», va da sé che gli inquirenti avrebbero dovuto indagare altrove, fuori da quegli spazi occupati, laddove si ritiene giustificata anche l’azione diretta privata e individuale (ovvero, secondo gli squatter, quella «terrorista e clandestina»). Un suggerimento prontamente raccolto dagli inquirenti, che per quei fatti indagarono, tanto per cominciare, otto compagni non appartenenti a nessun spazio occupato. C’è modo e modo di dissociarsi. C’è quello spudorato degli autonomi e quello meno palese degli squatter. Ma sempre di dissociazione si tratta.

Era ovvio che nel suo libro Imperato ne approfittasse anche per regolare un po’ di conti lasciati in sospeso con tutti coloro che all’epoca avevano criticato i suoi beniamini. Oltre ad alcune frecciatine ad El Paso, un discorso a parte meritano i suoi commenti alla sola pubblicazione che fino ad oggi aveva affrontato quegli eventi, Ultima fermata, pubblicata a caldo nel giugno del 1998 dalle edizioni NN. Si tratta di un dossier a tesi che, per le sue critiche, fece imbestialire sia gli squatter sia il loro incensatore Imperato che oggi, indossati i panni del vendicatore mascherato (da storico), lo liquida così: «Il contenuto di questo scritto è basato soprattutto sulla polemica nei confronti della componente del movimento anarchico che si definisce “squatter”». Tutto qui? No, certo, c’è sempre l’immancabile nota a precisare meglio le cose: «Pur comprendendo il bisogno (comune del resto anche ai centri sociali comunisti) di differenziarsi dagli squatter non condividendone le pratiche, tuttavia ritengo che l’astio polemico (anche se presentato nella nota introduttiva come diritto alla critica) di cui è permeato tale testo, non permetta un sereno confronto con le tesi ivi sostenute circa le iniziative portate avanti in quei giorni. Nel presente lavoro, pur avendo la mia personale opinione su ogni singolo episodio della lotta contro la montatura Laudi–Tatangelo, non è mia intenzione dare valutazioni di merito sull’attività degli uni o degli altri, ma fare una cronaca il più possibile serena di quanto è successo. Per la confutazione delle tesi sostenute in Ultima fermata cfr. il cap. “Gli antefatti”». Incredibile, ma vero. Così come non pretende di essere obiettivo, ma solo di dire la verità, allo stesso modo non intende confrontarsi con quanto sostenuto su Ultima fermata, si limita a confutarlo in un capitolo del suo libro!

A parte il fatto che questa sua ritrosia nel confrontarsi con chi nutrirebbe «astio polemico» verso i suoi amichetti è smentita dall’appendice in cui dedica intere pagine per ribattere ai veleni di Luther Blisset (i più maliziosi potrebbero pensare che sia più facile rispondere alle tute bianche…). A parte il fatto che lui stesso non si tira indietro nell’affibbiare definizioni poco garbate ad altri anarchici (ad esempio, un noto esponente del circolo anarchico Ponte della Ghisolfa viene considerato facente parte de «il peggio del peggio, tutta gente che da anni porta avanti un discorso di aperta collaborazione con le istituzioni», mentre un collaboratore di Comunismo Libertario viene tacciato di «idiozia»). A parte il fatto che gli autori di Ultima fermata non hanno mai rivendicato un «diritto alla critica» che esiste solo nelle fantasie dei socialdemocratici ed in quella di Imperato. Ma che dire della sua nobile premura di risparmiarci la sua «personale opinione» — che comunque possiede, ce lo assicura e ce lo dimostra approvando incondizionatamente tutto quanto detto e fatto dagli squatter in quei giorni — al fine di «fare una cronaca il più possibile serena di quanto è successo»?

Ma vediamo questa sua confutazione alle tesi di Ultima fermata. Tesi che, con la consueta accuratezza che adopera, riassume così: «Versione anarchico-insurrezionalista. Gli attentati non hanno nulla a che vedere con i servizi segreti, ma sono opera di elementi della popolazione locale che, stanchi delle inutili promesse dei politici, sono finalmente passati all’azione diretta contro il potere. L’arresto dei tre anarchici è servito per stornare l’attenzione dalle azioni di rivolta contro il TAV. Gli squatter accettando di portare lo scontro sul terreno metropolitano, in difesa delle case occupate, hanno favorito questo disegno». Visione delle cose che, a suo dire, sebbene presenti degli elementi inconfutabili, è vanificata «da pregiudizi di fondo». E quali sarebbero codesti pregiudizi? È presto detto. Il «voler vedere la realtà solo con gli occhi dei propri desideri. Senz’altro è fuor di dubbio che alcuni dei sabotaggi avvenuti in Val di Susa (specialmente quelli eseguiti con i mezzi più rudimentali) sono riconducibili al terreno della rivolta, ma non si può chiudere gli occhi su tutte le manovre operate dai servizi segreti in Valle e ritenere con tutta tranquillità che, ad esempio, un attentato come quello alla cabina elettrica di Giaglione (per cui è stato condannato Silvano come lupo grigio), nonostante l’alta professionalità tecnica dimostrata dagli autori, sia opera di valligiani in rivolta».

Lo storico Imperato ha fatto la storica scoperta dell’acqua calda: si vede la realtà con gli occhi dei propri desideri. Malatesta, che ne era consapevole, citava un proverbio inglese per spiegarlo: il desiderio è padre del pensiero. Si teorizza ciò che si desidera. Cosa che fanno tutti, nessuno escluso, in maniera più o meno degna (o pensa davvero che quando qualcuno fa risalire il sorgere del sole al bisogno di illuminare la propria casa occupata è perché ciò corrisponde alla cronaca serena dei fatti?). Se ne può dedurre che gli autori di Ultima fermata desiderano che i sabotaggi avvenuti in Val Susa siano opera di valligiani e che si estendano, mentre Tobia Imperato desidera che dietro alcuni di essi ci sia lo zampino dei servizi segreti e che quindi è meglio fermarsi tutti a riflettere se è il caso di continuare: ognuno ha i desideri e i pensieri che si merita.

Ciò che Imperato non ha ancora imparato è che la presenza o meno dei servizi segreti, in Val di Susa come altrove, è un falso problema. Anche se fosse appurato il loro intervento (le perizie di tribunale cui egli si riferisce, per quel che possono valere, non hanno dimostrato nulla di definitivo giacché hanno sia confermato che smentito una certa “professionalità”), ciò non renderebbe meno significativi gli atti di sabotaggio avvenuti in Val Susa (da lui chiamati con generosità «ecoterrorismo» o «terrorismo anarchico», riproducendo la lingua menzognera del dominio), né renderebbe meno urgente e necessaria la loro generalizzazione.

Ma Imperato ha un’altra obiezione da sottoporci. Egli infatti si domanda dubbioso: «E poi che bisogno c’era di fermare la rivolta se questa si era, di fatto, già esaurita?» Di fatto? Sì, perché «I tre anarchici sono arrestati all’inizio di marzo ‘98 e l’ultimo attentato risale all’inizio di novembre; era da quattro mesi che in Valle non succedeva più niente». Insomma, passano quattro mesi di calma e lui ha già decretato la fine delle ostilità (ancora una volta, il desiderio è padre del pensiero). Deduzione che è già assurda di per sé, ma poi basterebbe osservare le date delle azioni per notare che c’erano già stati interi mesi di tregua.

Povero agiografo, quanta fatica per niente. Ma bisogna comprenderlo, doveva pur sempre attaccare coloro che nutrono «astio polemico» nei confronti dei suoi amati squatter: gli anarchici insurrezionalisti. E chi sono costoro? Qui Imperato sfoggia tutto il suo rigore di storico, dando nell’ennesima nota una indimenticabile definizione dell’anarchismo insurrezionalista: «L’anarchismo insurrezionalista - come lo autodefiniscono i suoi propugnatori - è una tendenza relativamente recente nel panorama del movimento anarchico. A differenza di altre tendenze che si sono sviluppate nel corso della storia del pensiero libertario (comunisti, individualisti, organizzatori, antiorganizzatori, educazionisti, sindacalisti, ecc.) che si basavano soprattutto su una diversa concezione politica e organizzativa, l’insurrezionalismo si distingue principalmente per la concezione dei mezzi da usare per l’abbattimento dello Stato. Mentre una parte degli anarchici ritiene che, nell’attuale fase storica e nei paesi dove esiste un minimo di democrazia formale, non sia conveniente [suo il corsivo] l’utilizzo della lotta armata, gli insurrezionalisti sono sostenitori di una rivolta senza limiti».

Non è facile dire tante scempiaggini in così poche righe, ma Tobia Imperato è un tipo in gamba: ci è riuscito. In realtà, checché egli ne dica, ci sono sempre stati anarchici sostenitori dell’insurrezione. Se oggi, a differenza del passato, ci sono compagni che sottolineano questo aspetto è solo perché l’insurrezione è scomparsa dai desideri e quindi dai pensieri di molti anarchici, più attratti dall’ipotesi del «seme sotto la neve» (nelle sue varianti dell’esodo, o del municipalismo libertario, o dell’autogestione degli spazi occupati...). Non si tratta affatto di una «tendenza relativamente recente», tutt’altro. Lo stesso Malatesta era sostenitore dell’insurrezione qui ed ora (anche se all’epoca si preferiva usare il termine insurrezionista). Nulla di nuovo, quindi, men che meno la giustificazione della necessità della violenza per abbattere il potere (il quale, benché lo storico Imperato non se ne sia accorto, è diffuso anche nell’attuale fase storica e perfino nei paesi dove esiste un minimo di democrazia formale). È incredibile dover ricordare simili banalità. Ma forse l’interessata e quindi interessante amnesia che affligge Tobia Imperato — questo bizzarro anarchico che quando viene criticato è capace solo di piagnucolare sul mancato rispetto del suo «diritto» alla parola — non si limita a quanto accaduto qualche anno fa a Torino, estendendosi anche a tutta la storia del movimento anarchico che a volte può risultare davvero sconveniente.

Ci fermiamo qui. Ci permettiamo tuttavia di consigliare la lettura di Le scarpe dei suicidi, non foss’altro perché costituisce un notevole esempio di propaganda parrocchiale travestita da ricostruzione storica. Il che non sarebbe stato particolarmente fastidioso se l’autore lo avesse riconosciuto («questo libro è di parte, voglio raccontarvi come hanno vissuto le cose i miei amici squatter»). Ma non l’ha fatto, preferendo atteggiarsi ipocritamente da «uomo libero da ogni forma di settarismo», dispensatore della «nostra verità», mero scrivano di una «cronaca il più possibile serena di quanto è successo». Se poi si pensa che Imperato è uno di quelli che hanno collaborato con Caparrós, l’avvoltoio argentino che ha mercificato la vita di Soledad Rosas, trovando «sostanzialmente corretto» il suo libro e «bacchettone moralista» chi lo ha criticato; se si pensa che Imperato fa anch’egli largo uso dei risultati delle intercettazioni poliziesche, a cui aggiunge i suoi esilaranti commenti (imperdibile la perla contenuta a pagina 180, dove un supposto progetto di strage di turisti viene confutato attraverso la distinzione fra «baule» e «cassa»); se si pensa che Imperato non si fa scrupoli nel pubblicare il messaggio di addio di Soledad, che doveva essere distrutto dietro sua esplicita richiesta... allora diventa più chiara la ragione di un vecchio aforisma di Kraus: «Spesso lo storico è soltanto un giornalista voltato all’indietro».

alcuni figli di... nessuno

P.S. A chi strillerà contro il dito dell’anonimato per non guardare la luna della critica, diciamo che — a dispetto dell’antico detto cinese — non lo consideriamo affatto un imbecille. Perché un imbecille si può rispettare, non foss’altro per la sua maldestra sincerità. Al contrario, chi oggi si scaglia contro le critiche “anonime” in quanto tali, gronda solo ipocrisia. Se è a corto di argomenti, non è certo perché ha la testa vuota. Purtroppo gli antichi cinesi, nel loro candore, non avevano preso in considerazione un altro genere di ottusità: quella derivata dall’interessato calcolo di bottega. E le orecchie da mercante, quando è conveniente, amano la sordità.
Se l’imbecille tiene fisso lo sguardo sul dito, anziché sulla luna, l’ipocrita fa andare i suoi occhi dalle stelle alle nuvole, dagli insetti alle luci degli aeroplani, spostando continuamente l’attenzione pur di non affrontare la questione.